E’ Franceschini bellezza, e il cinema non potrà fare più nulla
Stefania Brai*
Non c’è una voce dell’intero settore del cinema e dell’audiovisivo che si sia opposta alla nuova legge appena approvata. Il mercato, insomma, ha messo d’accordo tutti. Perché questa è la filosofia di fondo. Non si sostiene più l’opera cinematografica e la creazione artistica, ma le imprese e l’industria. Cosa è successo in questo paese di così devastante nel sistema dei valori delle persone e in particolare delle forze intellettuali per cui non ci si espone più in nessuna battaglia, né di principio né in difesa di diritti?
È il mercato bellezza! E il mercato ha vinto su tutta la linea. È impressionante vedere come Franceschini, cioè Renzi, cioè il mercato abbiamo improvvisamente messo d’accordo tutti. Non c’è una voce di tutto il settore del cinema e dell’audiovisivo che si sia opposta alla nuova legge. Al massimo sono stati chiesti semplici aumenti di finanziamento per alcuni settori di intervento. Improvvisamente tutti dicono che era esattamente questa la legge attesa da anni, anzi da decenni, da tutto il mondo del cinema.
Poiché il testo non è stato modificato nella sostanza rispetto a quello originale di cui avevamo già parlato su Bookciakmagazine, provo solo a contestare alcuni – solo alcuni – degli slogan lanciati dal Ministero e spesso ripresi acriticamente dai giornali, e non solo. A rischio di ripetere cose già dette.
Secondo il Mibact “con il fondo cinema aumentano le risorse del 60%: 150 milioni in più”.
C’è il piccolo particolare che con questo fondo non si finanzia solo il cinema (come è stato fino ad ora) ma anche l’audiovisivo esteso fino a comprendere i videogiochi: vale a dire che perlomeno raddoppiano i soggetti destinatari del fondo. Né si sa quanto sarà destinato a ciascun settore – se per esempio sarà diviso in parti uguali o meno – perché sarà un decreto governativo, e non la legge, a stabilirlo.
Ma c’è di più: avranno la nazionalità italiana e quindi il diritto di accedere al finanziamento le opere (sempre audiovisive e cinematografiche) il cui regista, l’autore del soggetto, della sceneggiatura, la maggioranza degli interpreti principali e degli interpreti secondari, l’autore della fotografia, l’autore del montaggio, l’autore della musica, il costumista, lo scenografo e l’autore della grafica sono di nazionalità italiana o di altro paese europeo. Si finanzieranno cioè con questo fondo film francesi, spagnoli, tedeschi, eccetera purché girati principalmente in Italia e con i componenti la troupe non necessariamente italiani ma residenti in Italia e sottoposti a tassazione italiana. Di quanto ancora si allarga la platea degli aventi diritto? In che senso allora aumentano le risorse?
Ancora: “nasce un meccanismo virtuoso di autofinanziamento”.
Anche questo non è vero. Non è vero perché la legge prevede che i 400 milioni del fondo per il cinema e l’audiovisivo derivino “dal versamento delle imposte ai fini Ires e Iva, nei seguenti settori di attività: distribuzione cinematografica di video e di programmi televisivi, proiezione cinematografica, programmazioni e trasmissioni televisive, erogazione di servizi di accesso a internet, telecomunicazioni fisse, telecomunicazioni mobili”. Vale a dire, per essere chiari, che non c’è nessuna tassa di scopo, nessun onere aggiuntivo per le televisioni e per i colossi delle telecomunicazioni (come è nel sistema francese, per esempio), ma invece oneri aggiuntivi per lo Stato, che rinuncia a una parte delle sue entrate prelevando una quota dell’Ires e dell’Iva – che questi soggetti già versano – per destinarla al cinema e all’audiovisivo. Non sono le imprese a sostenere il cinema e l’audiovisivo ma la fiscalità generale, cioè i cittadini.
Sempre secondo il Mibact “i contributi selettivi sono un aiuto concreto per le promesse del nostro cinema”.
Ci vuole sul serio un bel coraggio nel sostenere che si dà un aiuto concreto per le promesse (?) del nostro cinema destinando il 18 % (ed è il limite massimo, non minimo) dei 400 milioni, vale a dire 72 milioni, a: scrittura, sviluppo, produzione e distribuzione nazionale di opere cinematografiche e audiovisive; opere prime e seconde, giovani autori, film “difficili realizzati con modeste risorse”; start-up; piccole sale; Biennale di Venezia, Istituto Luce Cinecittà e Centro sperimentale di cinematografia; promozione cinematografica e audiovisiva; promozione delle attività di internazionalizzazione del settore, dell’immagine dell’Italia attraverso il cinema e l’audiovisivo; sostegno alla realizzazione di festival, rassegne e premi di rilevanza nazionale e internazionale; promozione delle attività di conservazione, restauro e fruizione del patrimonio cinematografico e audiovisivo; sostegno alla programmazione di film d’essai; sostegno all’attività di diffusione della cultura cinematografica svolta dalle associazioni nazionali di cultura cinematografica, dalle sale delle comunità ecclesiali e religiose (!!!).
Ma di quale aiuto parliamo? Così si uccide definitivamente la possibilità stessa dell’esistenza di una produzione artistica cinematografica.
Ma in realtà questo è il punto di fondo e la base della filosofia di tutta la legge, che non a caso tra gli obiettivi del finanziamento dello Stato indica quello di “facilitare l’adattamento all’evoluzione delle tecnologie e dei mercati nazionali e internazionali”. Infatti, riservata la nicchia del 18% ad un cinema che finora abbiamo definito d’autore o di “qualità” e che adesso chiamiamo “difficile”, tutto il resto è o credito d’imposta alle imprese o finanziamento automatico alla produzione, alla distribuzione e all’esercizio in base agli incassi.
Non si sostiene più l’opera cinematografica e la creazione artistica, ma le imprese e l’industria, e l’intervento dello Stato non sarà più destinato e riservato a far nascere, vivere e far conoscere al pubblico quelle opere che con i soli meccanismi del mercato non vedrebbero mai la luce, ma esattamente all’opposto a premiare quelle opere che più aderiscono a quei meccanismi e quelle imprese che sono già forti sul mercato. Non si incentivano e sostengono le sale che proiettano i film d’autore italiani ed europei, ma al contrario più i film incasseranno più gli esercenti avranno contributi pubblici.
Infine si sostiene che “sparisce la censura di Stato”.
Bisogna dire che fa piacere che finalmente si riconosce che finora si è applicata la censura di Stato. Il problema è però che la censura non sparisce affatto perché si delega al Governo di emanare uno o più decreti (in tutta la legge ne abbiamo contati più di 20 oltre a diverse deleghe al governo) in materia di tutela dei minori sostituendo gli attuali meccanismi con una idea geniale chiamata “responsabilizzazione degli operatori”. Saranno cioè gli operatori cinematografici, sotto il controllo del Ministero, a classificare i “prodotti” per garantire la tutela dei minori. Mi sbaglio o si chiama autocensura obbligatoria?
Allora: dove è finito il Centro nazionale per il cinema per il quale gli autori si sono battuti per anni? Dove è finita la tassa di scopo? Dove sono finite le normative antitrust? Dove sono finite le norme per regolare il rapporto tra cinema e televisione? Come si fa sostenere che questa è la legge da sempre voluta dalle forze culturali, sociali e produttive del cinema? Perché tanto silenzio?
Mi fermo qui. Ma vorrei concludere tentando alcune considerazioni.
Intanto improvvisamente il tanto bistrattato bicameralismo non ha impedito di approvare nel solo giro di un anno una legge di sistema “così attesa”. Verrebbe da chiedersi perché allora fare la riforma della Costituzione e fare finta di abolire il Senato visto che questo governo è riuscito ad emanare leggi che stanno modificando in modo radicale e strutturale il paese facendolo retrocedere di decenni e spazzando via diritti fondamentali e principi costituzionali: dalla legge sul lavoro (mi rifiuto di chiamarla in inglese), alla riforma della scuola, del servizio radiotelevisivo pubblico, dell’editoria, ed ora del cinema. Guarda caso si è intervenuto prima sui diritti del lavoro e poi su tutto ciò che forma le intelligenze e il pensiero critico.
Ma cosa è successo in questo paese di così devastante nel sistema dei valori delle persone e in particolare delle forze intellettuali per cui non ci si espone più in nessuna battaglia, né di principio né in difesa di diritti (fatte tutte le dovute e ovvie eccezioni e chiedendo scusa per il rischio di generalizzazione)? È sufficiente la gravità della crisi economica e il rischio della perdita del lavoro a giustificare l’improvvisa e totale accettazione del senso comune dilagante e la mancanza di opposizione culturale?
Certo non so dare una risposta facile ma credo che è da qui, da un’analisi e da una riflessione su quello che sta accadendo nelle coscienze delle persone che dobbiamo ripartire se pensiamo che questo mondo vada cambiato. E se pensiamo che in particolare alle forze culturali e agli intellettuali spetti il compito enorme dell’elaborazione di un pensiero critico su quale società stiamo – stanno – costruendo.
La mancanza di sicurezza del e sul lavoro. Con l’abolizione dell’articolo 18 e quindi con la paura ad esporsi in battaglie sindacali collettive pena il rischio di licenziamento, ognuno è costretto a pensare alla difesa del proprio posto di lavoro costi quello che costi: anche morire sul o per il lavoro.
Una scuola e una formazione non più finalizzata alla conoscenza e alla crescita individuale e collettiva ma alla preparazione di mano d’opera per il mercato del lavoro.
Una produzione culturale ed artistica uniforme e omologata finalizzata per la maggior parte all’adattamento al mercato e non a risvegliare le intelligenze. La cultura patrimonio solo di chi se la può permettere.
Non più diritti, ma concessioni.
È questo quello che vogliamo?
Humphrey Bogart ne L’ultima minaccia diceva: “è la stampa bellezza, e tu non puoi farci niente”. Pensiamo ormai anche noi di non poter fare niente?
Pubblicato su Bookciak Magazine
* responsabile nazionale cultura del Partito della Rifondazione comunista/Sinistra europea